Monti e quell’agenda un po’ avara

Onore a Mario Monti, il pompiere durato un anno. Tracollo evitato. Ma rimettere in riga l'Italia è altra cosa. La sua agenda per la “salita” in politica? Delude. Delude anche qualche montiano convinto. Confezionata un anno fa l’Agenda Monti-Ichino avrebbe rappresentato un buon canovaccio operativo. Buonsenso, prudenza, gran diplomazia nell’elenco di buone cose da fare e di principi da rispettare. Ora non basta. Nulla di male a mobilitare illustri economisti di provata buona fede. Purché lascino non solo proclami di buone intenzioni ma tracce operative. Che mancano.


L’agenda (o è meglio, a questo punto, chiamarla “sotto-agenda”) digitale? Al di là delle fascinose enunciazioni sulle frontiere del “cloud computing”, delle “smart communities/smart cities”o della “promozione delle connessioni alla banda larga e ultralarga”, come ignorare che proprio lo sconcertante balletto sull’alchimia tra Stato-imprese-regole necessarie a dotare il paese di una vera banda larga che non c’è rischia di scolpirsi nella memoria storica come l’ennesimo moloch che avrà ostacolato l’evoluzione dell’Italia verso un nuovo sviluppo. E come ignorare, intanto, le inadempienze delle pubbliche amministrazioni che ancora ansimano dietro l’obbligo di aprire i loro servizi al cittadino in rete.

Il gap italiano nei costi dell’energia? Come non far tesoro degli evidenti errori dell’ultimo decennio, canalizzando gli incentivi alle energie rinnovabili sul fattore colpevolmente ignorato, ovvero la creazione di una filiera industriale nazionale. E come ignorare gli accorati appelli dei migliori istituti di ricerca sulla vera miniera nazionale ricca di immense risorse: l’efficienza. Che non significa risparmio ma semplicemente l’uso più produttivo dell’energia per fare non le stesse cose ma di più, visto che solo nei immobili pubblici si potrebbe facilmente tagliare il 30% di sprechi  e dispersioni di elettricità e calore. Magari finanziando, con i relativi risparmi, la ricerca industriale sulla filiera delle nuove soluzioni energetiche. Poco o nulla nell’Agenda Monti. Poco, molto poco, persino nel documento di consultazione sulla Strategia energetica nazionale messo in campo dal Governo nelle scorse settimane. Che tra i provvedimenti di una certa concretezza annovera la negazione ufficiale e sottoscritta di una promessa proferita nei mesi scorsi e apprezzata dagli operatori energetici: l’eliminazione della zona di rispetto da qualunque esplorazione petrolifera nei mari italiani fino a 12 miglia dalla costa introdotta due anni fa con un codice ambientale sbilenco nelle stesse armi per la tutela del territorio.

Gli ostacoli della burocrazia con relativi sovracosti anticompetitivi inflitti all’intero sistema delle nostre imprese oltre che al singolo cittadino? Gli speculari sovracosti della grande macchina dei servizi pubblici (dalla sanità all’istruzione fino alla giustizia) rispetto alla quantità e qualità dei servizi?.Come ignorare i conclamati limiti del concetto stesso di spending review. Da sostituire, anche qui, soprattutto qui, con il miglior parametro chiave da premiare: l’efficienza, in grado di generare automaticamente una spending review non nemica ma amica della crescita. Efficienza da misurare senza troppe invenzioni. Ad esempio nell’istruzione. Adottando, accanto ai traballanti parametri dei sistemi Invalsi e Indire che dovrebbero garantire il controllo dei risultati della scuola, qualcuno dei più diffusi benchmark internazionali in grado di misurare la produttività e l’efficacia complessiva, anche economico-finanziaria, della grande macchina della formazione degli italiani del futuro.

Siamo e rimaniamo, inutile nasconderlo, un paese poco attrezzato al cambiamento e persino al rimedio degli errori e delle inadempienze più evidenti. E proporre un’Agenda di soli appelli e principi senza il rapido seguito di qualcosa di più operativo e strutturato può essere, a questo punto, persino controproducente. Per gli elettori a cui si fa appello. Per i nostri interlocutori internazionali. Chiamati all’adesione e al contributo, ma senza offerta di adeguate garanzie, nemmeno nelle intenzioni programmatiche da mettere nero su bianco con sufficiente puntualità.

Così, ad esempio, quando nell’Agenda si declama il progetto per istituire un “Fondo per le ristrutturazioni industriali che faccia da catalizzatore per la partecipazione di capitali privati” così da “puntare a raggiungere un livello di investimenti esteri vicino alla media europea, che potrebbe portare fino a circa 50 miliardi di euro in più di investimenti l’anno”.

Catalizzare, con un buon governo delle crisi da trasformare in occasioni? Guardiamo, per fare un esempio emblematico, non ai casi oltremodo ingarbugliati dell’acciaio Ilva o dell’alluminio Alcoa (dove peraltro gli investimenti erano già esteri), ma all’episodio davvero imbarazzante della ex fabbrica Fiat siciliana di Termini Imerese. Persino qualcuno dei nostri politici aveva avuto una buona idea: farne il polo pubblico-privato della mobilità elettrica italiana. Magari in sinergia con la ricerca e l’industria del fotovoltaico. Siamo in Sicilia, piena di sole. Siamo vicini ad una delle migliori università tecniche italiane, a Catania. Le infrastrutture ci sono, quelle della vecchia fabbrica. Le maestranze, volenterose nonché dal problematico futuro, pure. Certo, ci sono i sovracosti tricolori di cui sopra. Ma  persino qualche capitale privato sarebbe pronto a mobilitarsi. Non ci si è neppure seriamente pensato, al di là dell’idea intelligente di pochi. Perché la Fiat non crede nell’auto elettrica, dice qualcuno probabilmente fallando sia il concetto che il bersaglio, visto che la Fiat l’auto elettrica la sta facendo. In America.

 

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