Quella terra di mezzo che frena i migliori

Sono le facce multiformi dello sconforto, della delusione, della consapevolezza che potevamo e volevamo dare di più, della (rassegnata?) convinzione che ai nostri figli lasceremo qualcosa di intimamente inedito. Ecco, dopo di noi, le prime generazioni che nascono e crescono sapendo che con tutta probabilità andrà peggio di come è andata per i padri. Lo scenario di questi giorni non aiuta, con i suoi effetti perversi di divaricazione sociale, di privilegi agguantati dai pochi che possono contare su scialuppe di salvataggio a volte miracolosamente solide, di inevitabili conflitti generazionali. Speranze? Sì, sempre. Impegno? Doveroso. La storia ha attraversato momenti difficili, drammaticamente più difficili di quello che stiamo vivendo. Ma intanto anche i migliori rischiano (sbagliando) di perdere la speranza. Perfino quelli, più fortunati (molti, troppi, lo sono assai meno) che comunque hanno il paracadute di un lavoro che se non altro garantisce un reddito decente e (per ora) sicuro. Come l’amico che mi scrive – ecco qui di seguito la sua testimonianza – e che ben rappresenta una generazione tradita. E’ un “ragazzo” di valore. E’, anagraficamente, nella scomoda terra  di mezzo. Ha qualcosa da recriminare. Ma fa anche un po’ di autocritica.

 


Noi ultraquarantenni, generazione sacrificabile

Tutto sommato, forse, la nostra generazione di ultraquarantenni è sacrificabile, se questo può aiutare a far uscire l’Italia dalla crisi. 47 anni, giornalista, dipendente di una grande azienda pubblica dei servizi, laureato, sposato con figli, il classico ceto medio professionista, tutto come da manualetto di sociologia spicciola.

Noi cerchiamo, senza trovarla, la giustificazione per aver realizzato meno di quello che han fatto i nostri genitori. Se non fosse per quello che avevano fatto i miei genitori, e che sono riusciti a mettere da parte, io impiegatuccio come molti miei coetanei faticherei a tirare avanti. Nessuno di noi è povero beninteso, anzi fa tutto sommato una vita da ceto medio-alto, ma solo perché può sfruttare risorse preesistenti. I miei genitori son partiti da molto poco e hanno realizzato tantissimo, tanto da poterci comprare una casa a me e a mia sorella. Io per i miei figli non sono in grado neanche di comprare un monolocale.

Di fatto noi, quelli della la mia generazione, non abbiamo creato niente. La nostra è la generazione dei vivacchianti, né male né bene, remiamo piano senza sforzarci troppo, tanto non andremo da nessuna parte. I nostri genitori vengono dal boom economico, hanno fatto tanto e bene. Noi siamo qui a sopravvivere (bene) di rendita, senza nessun valore aggiunto. Consumiamo quel che hanno lasciato loro, poi si vedrà. E’ vero, ci siamo beccati il riflusso, la crisi (le crisi?) economica, la stagnazione, l’Italia in declino, lo stipendio immutato da dieci anni. E allora, serviamo davvero a qualcosa nel ciclo produttivo, nell’economia della nazione?

I nostri splendidi curriculum non sono serviti a niente, i viaggi all’estero che i nostri genitori ci han fatto fare per imparare una o due lingue straniere non hanno fatto la differenza. Non abbiamo potuto, o voluto o saputo valorizzarci come volevamo e come pensavamo. A neanche 50 anni stiamo già facendo i conti per le pensioni. Io e i miei coetanei ci guardiamo intorno e ci facciamo due conti, forse andremo in pensione poco prima dei 70 anni. Nel frattempo la generazione prima della mia che lascia il mio ufficio adesso va in pensione prima dei 60 anni, grazie a scivoli, fondi, agevolazioni, buonuscite. Baldi 58enni che, magari dopo una dura vita di mezze giornate lavorative nel parastato, è pronta per una nuova giovinezza lavorativa, forse  al nero liberi di fare l’artigiano o il consulente. Tutti felici di gravare sull’Inps per altri 30 anni almeno. Fra loro anche gente che si è fatta un mazzo tanto, non dico di no, ma fra loro e fra noi (anche io probabilmente) anche tanti sfaccendati, da troppo tempo.

Inutile generalizzare, si dice, ma una grossa fetta di noi è così: conquistato il posto fisso abbiamo gettato la spugna. Noi continueremo a fare gli impiegatucci e verremo in ufficio ben dopo i 60 anni: ma a fare che? Ma con che voglia, con  che stimoli? Parteciperemo, anziani e fuori tempo massimo, a riunioni sulla produttività e sulle nuove proposte per rilanciare l’azienda? Con quale voglia parleremo di strategie? Ma quale bagaglio di esperienza e trapasso nozioni, ma a chi volete che interessi il parere ed il lavoro di un sessantenne che ha sempre navigato nei quadri medi dell’azienda, peraltro durante periodi di stagnazione? Largo ai giovani, al nonno facciamolo venire per fare bella presenza, ma poi i dati su excel ce li mettono gli altri, lui magari ci vede pure poco davanti allo schermo del computer.

Dopo i 55 anni ci parcheggeranno in qualche mansione secondaria (non che ne avessimo mai avute di primarie) tipo gli “spostapolvere”, figura mitica dello statalismo italiano, portavano i fascicoli da un tavolo all’altro, cambiando appunto posto alla polvere. Ancora ancora, noi dipendenti siamo comunque fortunati; che faranno i liberi professionisti costretti a lavorare fino alla soglia dei 70 anni? E chi fa lavori fisici, che ne so , fisioterapista o simile, come farà a farlo ben dopo i 60 anni? Chi porta a terapia da una simpatica anzianotta un ragazzino scatenato?

  Non sarà un mondo di manager anziani che possono passare le loro conoscenze ai giovani, non andrà così. E allora perché non sacrificare la nostra generazione? Facciamo spazio ai 30-35 enni, mandateci pure via in cassa integrazione: se può servire alla causa comune forse è giusto che sia così. Troveremo qualche cosa da fare, consulenti o artigiani, forse legalizzando quel doppio lavoro che troppi di noi del pubblico impiego han portato per anni avanti magari al nero. Servono giovani e idee giovani, se noi non serviamo più a nulla tanto vale fare spazio a chi ancora può fare qualche cosa.

In fondo noi dipendenti pubblici saremo comunque più fortunati dei disgraziati delle aziende private, che verranno fatti fuori con contratti di solidarietà, licenziamenti collettivi, chiusure anticipate, magari dopo aver davvero lavorato, loro sì, per un sacco di anni. Eppure anche lì quanta approssimazione, quanta voglia di un contratto a tempo indeterminato per poi sedersi: il privato non è esente dal lassismo che ha contagiato la nostra generazione.

Io tutto sommato sono felice, mi sento comunque realizzato grazie alla famiglia, e sono stato più fortunato di tanti altri coetanei anche sul lavoro, mi sono realizzato e avrò la possibilità di mandare i miei figli all'estero, perché possano scegliere dove vivere e lavorare meglio. Ma forse è solo crisi di mezza età:  sono anni che voto partiti che perdono, non seguo il calcio e sono nato in Italia, amo il freddo e sto vivendo l'inizio del riscaldamento globale, probabilmente è una questione ormonale. Oppure è inutile continuare a fare i piagnoni, siamo tutti necessari ma nessuno indispensabile: noi siamo sacrificabili. (Enrico Maria Ferrari)

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *